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immunoterapia e car t

 L’Italia si sta ricavando un ruolo di primo piano nelle sperimentazioni cliniche che impiegano queste “cellule potenziate” contro leucemie, linfomi e alcuni tumori solidi 

CAR-T cell è l’acronimo di Chimeric Antigen Receptor T-cell e, per esteso, indica una tecnica di modifica dei linfociti T che, così potenziati, riescono ad attaccare e distruggere le cellule tumorali.


Il sistema immunitario è costituito da organi, come i linfoidi primari e secondari, da molecole, come le citochine o i fattori del complemento e, infine, da cellule, come granulociti e linfociti (i globuli bianchi). I linfociti si dividono in linfociti B, mediatori dell’immunità umorale che rilasciano anticorpi quando vengono in contatto con un patogeno, e linfociti T, coinvolti nei processi di immunità cellulo-mediata.

Quando vengono a contatto con cellule estranee che espongono sulla loro superficie antigeni riconoscibili, i linfociti T avviano una risposta specifica, aumentando la loro produzione e quella dei linfociti di classe B e richiamando altri elementi cellulari, quali i macrofagi, coinvolti nella difesa dell’organismo. La risposta prodotta dai linfociti T è, dunque, specifica e si basa sulla possibilità che il linfocita riconosca l’antigene espresso sulla superficie della cellula estranea. Dall’identificazione degli antigeni è nata la branca dell’immunosorveglianza che ipotizza che il sistema immunitario sia in grado di controllare la crescita dei tumori. Ma, dal momento che quella tra i linfociti – che possiamo immaginare come gli agenti di polizia del nostro organismo – e le cellule tumorali – rappresentabili come i criminali – è una battaglia continua, accade che a volte predominino i poliziotti, altre volte, purtroppo, i criminali. In questo secondo caso, le cellule tumorali riescono a diffondersi nell’organismo creando gravi danni.

È a questo punto che occorre fornire ai poliziotti nuove armi. Facendo loro esprimere antigeni specifici che permettano l’identificazione delle cellule tumorali riuscite a evadere la risposta del sistema immunitario. Questo come è possibile? Attraverso un procedimento di leucaferesi, il sangue dei pazienti viene filtrato così da separare i globuli rossi e le piastrine dai globuli bianchi che vengono estratti e stoccati in impianti di produzione specifici. Si tratta di strutture altamente specializzate nelle quali ogni processo avviene in adempimento alle Good Manufacturing Practices (GMP, letteralmente norme di buona fabbricazione) un manuale di regole che disciplinano la produzione di terapie a base di cellule come le CAR-T. Le cellule prelevate dal paziente vengono messe in coltura e fatte moltiplicare prima di essere ingegnerizzate, questo implica l’allestimento e la realizzazione di ambienti protetti e sicuri all’interno dei quali operare. A questo punto, tramite sofisticate tecniche di manipolazione genetica (tra cui anche l’editing genomico), ai linfociti viene fatto esprimere in superficie l’antigene CAR che li aiuterà a riconoscere le cellule tumorali e, infine, essi vengono espansi clonalmente per poter essere infusi nel paziente e svolgere il loro compito. Naturalmente, la procedura è molto delicata: innanzitutto, i pazienti scelti per questo trattamento devono essere sottoposti ad alcuni cicli di chemioterapia prima dell’infusione intravenosa delle cellule CAR-T. Questo per dare la possibilità alle cellule modificate di permanere più a lungo nell’organismo e, soprattutto, riscuotere successo. Inoltre, prima di essere somministrati al paziente i linfociti CAR-T devono sottostare a rigorosissimi protocolli di verifica della qualità.

Le cellule CAR-T non possono essere definite un farmaco nel senso più classico perché non sono composte esclusivamente da molecole chimiche, bensì sono un farmaco biologico costituito da cellule prelevate dal paziente stesso. Le CAR-T sono un esempio emblematico di “terapia mirata e personalizzata, una terapia ritagliata appositamente sulla sua patologia e sul paziente. Ciò spiega anche la somministrazione in centri di eccellenza, dotati di personale altamente qualificato. Infatti, una volta reinfuse nei malati questi devono rientrare a stretti protocolli di monitoraggio per rilevare eventi avversi di natura indesiderata che dovessero presentarsi e, soprattutto, l’efficacia della terapia.

LE SPERIMENTAZIONI CLINICHE

            Ma qual è lo stato dei lavori legati alle cellule CAR-T? L’avvio dello sviluppo clinico delle CAR-T risale a dieci anni fa, ma l’anno di svolta è stato il 2017 quando la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato le prime terapie a base di cellule CAR-T per il trattamento della leucemia linfoblastica e del linfoma. A un anno esatto di distanza anche l’Europa ha acceso il semaforo verde all’uso dei linfociti CAR-T. La Commissione Europea ha dato parere favorevole all’immissione in commercio di Tisagenlecleucel di Novartis e di Axicabtagene Ciloleucel di Gilead. L’Italia ha una posizione di eccellenza nel panorama delle CAR-T: è dello scorso anno la notizia la notizia che un bambino affetto da leucemia linfoblastica acuta, per il quale non esisteva né speranza né alternativa terapeutica, è stato curato con questa tecnica all’Ospedale Bambin Gesù di Roma.

Ma occorre andare per ordine. Le indicazioni per il farmaco di Novartis sono rivolte sia a soggetti pediatrici e adulti fino ai 25 anni colpiti da leucemia linfoblastica acuta a cellule B refrattaria, in recidiva post-trapianto o in seconda o successiva recidiva, che a soggetti adulti con linfoma diffuso a grandi cellule B, recidivante o refrattario dopo due o più linee di terapia sistemica. I risultati dello studio clinico di Fase II JULIET, con cui i ricercatori si proponevano di valutare l’efficacia e la sicurezza del trattamento CTL019 in pazienti adulti affetti da linfoma diffuso a grandi cellule B, e quelli dello studio di Fase II ELIANA , nel quale la stessa molecola è stata somministrata con gli stessi obiettivi a soggetti di età compresa tra 3 e 30 anni affetti da leucemia linfoblastica acuta a cellule B refrattaria, hanno fornito risposte durevoli, efficaci e sicure che hanno indotto i vertici dell’ente regolatorio europeo a dare il via libera alla terapia.

            Il farmaco sviluppato e testato da Gilead nello studio clinico di Fase I/II ZUMA-1, invece, è indicato nel trattamento di soggetti adulti affetti da linfoma diffuso a grandi cellule B, linfoma primitivo del mediastino a grandi cellule B e linfoma follicolare trasformato, casi recidivanti o refrattari, dopo due o più linee di terapia sistemica. Lo studio risulta ancora in corso ma i risultati preliminari apparsi sulle prestigiose riviste scientifiche quali The New England Journal of Medicine  e The Lancet Oncology  esprimono dati molto incoraggianti. Nell’articolo apparso sulla rivista americana il tasso di risposta indotto da una singola infusione era dell’82% mentre il tasso di risposta completo era del 54%. A 15,4 mesi di follow-up il 42% dei pazienti continuava ad avere una risposta e il 40% mostrava una risposta completa. I dati riportati dalla rivista inglese, pubblicati a gennaio 2019, parlano di un follow-up di 27,1 mesi con tassi di risposta dell’83% e una riposta completa nel 58% dei soggetti. Sono già iniziate le trattative tra AIFA e Gilead per la commerciliazzazione del farmaco in Italia e, nel frattempo, l’Agenzia italiana e la biotech americana si stanno accordando per erogare il trattamento per uso compassionevole ai malati per i quali non esista alcuna alternativa terapeutica. “Contiamo che il numero di trattamenti che metteremo a disposizione” – spiega in un’intervista al Sole24ore  Valentino Confalone, vicepresidente e General Manager di Gilead Italia – “sia sufficiente a coprire il periodo necessario a completare il processo di rimborso. Per garantire un uso efficace delle risorse economiche che saranno messe in campo dal sistema sanitario abbiamo proposto ad Aifa una serie di meccanismi di rimborso innovativi legati ai risultati della terapia”.

Sullo stesso fronte si sta muovendo anche Novartis. Sempre dalle pagine del quotidiano di economia e finanzia italiano, Luigi Boano, General Manager di Novartis Oncology Italia ricorda che nello sviluppo di questa terapia l’Italia ha avuto un ruolo “centrale perché ha partecipato con un piccolo paziente allo studio registrativo, poi esteso ad altri cinque bambini”. Oltre all’Ospedale Bambino Gesù di Roma e all’Istituto Papa Giovanni XXIII di Bergamo, anche la Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma dell’Ospedale San Gerardo risulta attivo nelle sperimentazioni con le cellule CAR-T. “Quattro bambini hanno avuto una risposta straordinaria” – continua Boano – “Il follow-up è ancora troppo breve, ma un paio hanno già superato i sei mesi e possiamo dire di aver toccato con mano che queste cellule sono in grado di ottenere la remissione della malattia”.

Saranno necessari ulteriori studi sugli effetti a lungo termine e sugli eventi avversi legati altrattamento oltre che un’attenta analisi dei costi – elevatissimi – legati a queste promettenti terapie ma la strada sembra spianata e all’orizzonte si profila una sfida ai tumori solidi. Il melanoma si è dimostrato un valido modello di studio ma i primi incoraggianti risultati giungono anche dalle sperimentazioni sul neuroblastoma  ad indicazione che le CAR-T potrebbero davvero affrontare un ventaglio di condizioni molto ampio ed essere, insieme a CRISPR, una delle più importanti scoperte mediche del nuovo millennio.

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