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Paola Kruger

I recenti risultati dello studio clinico MESEMS sulle cellule mesenchimali non sono quelli sperati. Ma non rappresentano un totale fallimento, aprono la strada a nuove prospettive di ricerca

Il fallimento di un trial clinico non indica necessariamente la fine di una ricerca, ma un possibile cambio di rotta”. Commenta così Paola Kruger, paziente di sclerosi multipla e paziente Esperto EUPATI, i recenti risultati di MESEMS (MEsenchymal StEm cells for Multiple Sclerosi), il più ampio studio clinico multicentrico internazionale mai condotto sulle cellule staminali mesenchimali autologhe, per il trattamento della sclerosi multipla. Dopo otto anni, il trial coordinato dall'IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova con l'Università di Genova, ha dimostrato la sicurezza della terapia ma anche la sua inefficacia nel ridurre l’infiammazione cerebrale e nel migliorare i parametri clinici quali la frequenza di ricadute e la progressione di disabilità. I risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista The Lancet Neurology.

NON CREARE FALSE ASPETTATIVE

“Nonostante i risultati non siano quelli desiderati, sono stata colpita in modo positivo dalla comunicazione del dato negativo”, spiega Kruger, sottolineando come in genere si tenda a diffondere solo ricerche con esito positivo, erroneamente, perché il dato negativo contribuisce a creare un senso di realtà. Paola Kruger, infatti, ricorda che la ricerca va avanti proprio per tentativi e non è detto che al primo colpo si imbocchi subito la strada giusta. “Il fallimento di un trial può essere utile in questo senso, è anche un’occasione per migliorare la comunicazione sulla ricerca scientifica”, continua Kruger. “È importante far passare il concetto che non sempre i risultati sono positivi e, soprattutto, comprendere che bisogna aspettare la conclusione e i risultati di una sperimentazione prima di parlarne al grande pubblico. Perché altrimenti il rischio è che si creino false aspettative, con attese che possono durare anche anni vista la lunghezza delle sperimentazioni”. 

LE PREMESSE DELLA RICERCA

Eppure le premesse c’erano tutte. Studi preclinici in modelli sperimentali di sclerosi multipla avevano mostrato che le cellule staminali mesenchimali potevano “modulare l'attività del sistema immunitario, proteggere le cellule nervose e anche promuovere la riparazione del danno”, come spiega il coordinatore della ricerca Antonio Uccelli, neurologo e Direttore Scientifico dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. Per questi motivi le cellule staminali mesenchimali sono state ritenute le candidate ideali all'uso nella sclerosi multipla, in cui sono presenti sia l'infiammazione, sia il danno al tessuto nervoso. Inoltre, alcune sperimentazioni su pochi pazienti avevano dato risultati incoraggianti.

LO STUDIO MESEMS

Su queste basi è stato disegnato e avviato lo studio MESEMS, che ha coinvolto 144 pazienti con sclerosi multipla provenienti da 9 Paesi (Italia, Regno Unito, Spagna, Francia, Danimarca, Svezia, Austria, Canada e Iran) in tutto il mondo. In una prima fase i pazienti hanno ricevuto, in modo casuale, l’infusione di placebo o di cellule staminali mesenchimali provenienti dal paziente stesso (estratte dal midollo osseo, purificate ed espanse in vitro); dopo 24 settimane ciascun partecipante ha ricevuto il trattamento a cui non era stato sottoposto in precedenza, in modo tale che al termine della sperimentazione tutti i 144 partecipanti avessero ricevuto la somministrazione di staminali. Nel corso del trial, dal 2012 al 2019, i pazienti sono stati monitorati per riscontrare eventuali effetti collaterali e per verificare l’efficacia del trattamento sulla sclerosi multipla, tramite risonanza magnetica e sulla base di specifici parametri clinici. 

ALLA RICERCA DI NUOVE VIE

Purtroppo il nostro studio, ben più ampio e dai criteri più rigorosi mai realizzato finora, non ha dimostrato benefici delle cellule staminali mesenchimali che sono spesso presentate al pubblico come panacea per qualsiasi malattia degenerativa nonostante evidenze scientifiche ancora frammentarie”, ha sottolineato Uccelli. Una battuta di arresto di questo tipo non indica la fine della ricerca sulle cellule staminali mesenchimali autologhe per la sclerosi multipla, ma è in realtà, un punto di partenza per rimodulare lo studio. Potrebbero essere testate infatti altri tipi di cellule mesenchimali (ad esempio del tessuto adiposo, del paziente stesso o di un donatore), altre vie di infusione, dosaggio o frequenza delle somministrazioni. “Per poter essere arruolati nello studio i pazienti dovevano presentare una malattia attiva, tuttavia era ammessa l’inclusione di pazienti sia con forma a ricadute e remissioni che progressiva e questo potrebbe aver influenzato i risultati”, continua Uccelli. “Non è da escludere che le cellule staminali del paziente stesso possano essere meno efficaci rispetto a quelle isolate da soggetti sani”. 

L’IMPATTO SUI PAZIENTI

Anche se le speranze restano, l’impatto dei risultati negativi, soprattutto per i pazienti con le forme più gravi di sclerosi multipla, è stato molto forte, come conferma anche Kruger. Questo perché a livello farmacologico c’è ancora poco per questi pazienti che nutrono grandi speranze nelle cellule staminali. “C’è anche chi si reca all’estero per essere curato con terapie non validate scientificamente, con seri rischi per la salute” (Osservatorio Terapie Avanzate ne ha parlato qui e qui), commenta la paziente esperta, convinta che quella delle cellule staminali sia una branca che può dare ancora grandi prospettive ma che deve essere esplorata un pezzo alla volta. “Più andremo avanti più miglioreranno i processi di raccolta dati, ci saranno anche tecniche di ingegnerizzazione diverse, conclude Kruger.

LE ALTRE SPERIMENTAZIONI

D’altra parte le sperimentazioni sulle terapie cellulari a base di staminali non mancano e al momento ci sono studi in Italia per le diverse forme della patologia, come aveva raccontato all'Osservatorio Terapie Avanzate lo scorso anno Gianvito Martino del San Raffaele di Milano. Oltre al gruppo di Uccelli, che lavora sulle staminali mesenchimali, c’è il team guidato da Giovanni Luigi Mancardi del CEBR dell’Università di Genova che da molto tempo si occupa delle cellule staminali ematopoietiche, cioè il famoso trapianto autologo di midollo osseo che si usa ormai anche di routine per le forme aggressive di sclerosi multipla che non sono responsive ad altri trattamenti. Mentre, lo stesso Martino lavora sulle cellule staminali neurali del cervello che provengono dai feti abortiti, per provare a recuperare il danno già in parte causato dalla malattia.

La ricerca è fatta anche di insuccessi, ma spesso prima o poi centra l’obiettivo”, conclude Kruger che ricorda il caso anche della cladribina, sempre nell’ambito della sclerosi multipla, che subì una battuta d’arresto per poi essere rivalutata alla luce dei risultati a lungo termine ed entrare infine nella pratica clinica dove è tuttora in uso.

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