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Diabete

La sostituzione delle cellule beta del pancreas, che vengono distrutte da questa malattia autoimmune, potrebbe aprire nuove prospettive

Il nostro sistema immunitario è un alleato inestimabile che ci protegge da virus, batteri e altri agenti patogeni. A volte, però, l’azione di difesa si scatena contro i tessuti sani, dando origine alle cosiddette malattie autoimmuni. In tutto il mondo i ricercatori stanno studiando e sperimentando per trovare il modo di riportare il sistema immunitario sulla retta via e a luglio 2021 è uscito un supplemento della rivista scientifica Nature - chiamato Nature Outlook - dedicato proprio a questo tema. Tra i vari approfondimenti, anche uno su come le cellule staminali potrebbero essere utili contro il diabete di tipo 1.

AUTOIMMUNITÀ

Si pensa che l’autoimmunità, ovvero quel fenomeno per il quale il sistema immunitario scatena una reazione contro alcuni dei propri componenti, abbia un ruolo in più di 80 malattie, tra cui il diabete di tipo 1, l’artrite reumatoide, la malattia di Crohn e il lupus. Si tratta di malattie che colpiscono milioni di persone in tutto il mondo e che, anche se oggi è spesso possibile gestire i sintomi di queste patologie, in genere non è possibile curare definitivamente. Inoltre, sebbene alcune malattie potrebbero beneficiare dell’arresto dell’attività immunitaria, per altre la situazione sarebbe più complessa. Nel caso del diabete di tipo 1, ad esempio, i tessuti danneggiati dovrebbero essere sostituiti per ripristinare la loro funzione. La ricerca in questo ambito, anche a causa dell’alto numero di persone colpite, procede da anni e l’obiettivo è trovare soluzioni utili per migliorare la salute e la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.

IL DIABETE DI TIPO 1: DAL NOBEL ALLE STAMINALI

L’insulina viene prodotta nel pancreas dalle cellule beta ed è un ormone fondamentale per mantenere un livello controllato di zucchero nel sangue. Le cellule beta rilevano continuamente la concentrazione di glucosio in circolo e secernono insulina di conseguenza: più alto è il livello di zuccheri maggiore è la produzione dell’ormone. Come spiegato anche nell’articolo “How stem cells could fix type 1 diabetes”, l’insulina è stata una delle scoperte più importanti in medicina: risale al 1921 e la sua somministrazione ha cambiato il destino di molte persone affette da diabete, che da allora hanno una terapia a disposizione (ottimizzata nei decenni) ed evitano così le gravi complicanze e la morte. Nel 1923 il Premio Nobel per la fisiologia e la medicina è stato assegnato a Frederick Grant Banting e John James Rickard Macleod proprio per la scoperta di questa molecola.

Nel diabete di tipo 1, le cellule beta vengono distrutte dal sistema immunitario e questo provoca dei grossi problemi nella regolazione dei livelli di zucchero. Senza cellule beta - e, quindi, insulina - la concentrazione di zucchero resta costantemente troppo elevata: una situazione davvero pericolosa per l’organismo. L’iperglicemia cronica, infatti, è una situazione di tossicità per il corpo umano e causa danni fatali ad alcuni tessuti e organi.

Oggi gli effetti del diabete di tipo 1 possono essere mantenuti sotto controllo grazie al monitoraggio costante della glicemia e alla somministrazione di insulina, ma è un trattamento cronico che va seguito per tutta la vita. Per superare questo problema è stata presa in considerazione l’idea di sostituire le cellule beta danneggiate con altre cellule in grado di produrre insulina. Proprio per questo motivo, all’inizio del XXI secolo, è stato dimostrato che il trapianto di cellule beta da donatori deceduti potrebbe trattare con successo la patologia. È però un percorso con diversi ostacoli, tra cui la carenza di donatori compatibili. Un’altra opzione, a cui è possibile pensare grazie ai recenti progressi nelle biotecnologie, è quella di produrre in laboratorio cellule beta sane e trapiantarle. Sono però molti gli interrogativi: quali cellule usare, dove e quando dovrebbero essere trapiantate e come assicurarsi che il sistema immunitario non le distrugga? 

Per il diabete esiste già un intervento conosciuto come protocollo di Edmonton, tecnica chirurgica descritta per la prima volta nel 2000 sul The New England Journal of Medicine, che prevede il prelievo delle isole pancreatiche da cadavere per il trapianto. Questa tecnica è usata in pochi centri per trapiantare cellule beta nei casi in cui il diabete di tipo 1 è scarsamente controllato dall’insulina, dato che i risultati della sperimentazione fatta negli anni non hanno dato grandi speranze. Al di là del problema del numero di donatori, i pazienti sottoposti a questa procedura devono essere sottoposti a immunosoppressori per tutta la vita, con tutte le conseguenze del caso.

La scoperta delle cellule staminali pluripotenti indotte ha portato nuove speranze: unire il trapianto alla produzione di cellule in laboratorio potrebbe essere una soluzione. Sono state diverse le ricerche fatte per avvicinarsi a una possibile opzione terapeutica, ma i dubbi e i problemi sono ancora molti. In primis, l’accettazione delle cellule estranee da parte del ricevente e il superamento dell’autoimmunità, dato che il sistema immunitario delle persone con il diabete di tipo 1 è impostato per attaccare proprio le cellule beta. L’obiettivo ideale da raggiungere sarebbe quelle di trapiantare cellule beta sane in grado di sopravvivere e fare il loro dovere ed evitare le terapie immunosoppressive per tutta la vita.

COME SUPERARE GLI OSTACOLI

Tra le strategie in fase di valutazione per superare questi ostacoli c’è quella dell’incapsulamento: una tecnica che permette di proteggere le cellule dall’azione del sistema immunitario grazie a una barriera fisica. Queste strutture devono però permettere alle cellule di sopravvivere, dandogli accesso a ossigeno, nutrienti e ovviamente al sangue, dato che devono tenere sotto controllo costante la glicemia. Tra materiali all’avanguardia e i più noti idrogel, sono diverse le aziende che stanno sperimentando soluzioni innovative per il trapianto di cellule beta

Un’alternativa è quella di rendere le cellule trapiantate invisibili al sistema immunitario, modificandole geneticamente: l’ispirazione è venuta guardando sia il comportamento delle cellule tumorali, sia la convivenza tra madre e feto in gravidanza. Inoltre, modificare le cellule grazie all’editing genomico permetterebbe anche di migliorarne la sopravvivenza e le prestazioni. L’altro lato della medaglia è che queste cellule diventino troppo brave a sopravvivere e che non sia possibile eliminarle in caso di problemi, ad esempio di una infezione. Per questo motivo si sta pensando all’inserimento di “geni del suicidio”, attivabili in caso di necessità.

In questi anni l’attenzione si è spostata dal trattare i sintomi all’affrontare la causa delle malattie: sono poche le indicazioni cliniche approvate nel campo delle terapie cellulari a base di cellule staminali, ma sono molti gli investimenti delle aziende nel settore. I focus di interesse sono malattie neurologiche, cardiovascolari, epatiche, retiniche, muscoloscheletriche.  Finora la medicina rigenerativa è stata applicata in pochissime indicazioni cliniche specifiche ed è ancora presto per parlare di una terapia cellulare per il diabete di tipo 1, ma è interessante vedere come la ricerca e le tecnologie a disposizione evolvano, offrendo nuovi strumenti e possibilità terapeutiche per il futuro. Al di là dell’innegabile potenziale, è fondamentale restare coi piedi per terra e evitare terapie non regolamentate che promettono molto ai pazienti a discapito della loro salute (e del loro portafoglio).

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