Nella Giornata Internazionale della Talassemia ripercorriamo la ricerca di una cura, in continua evoluzione, dalla terapia genica all’editing genomico
Si può sempre fare di meglio. Soprattutto in campo scientifico dove l’innovazione e la ricerca continua possono non solo trovare terapie per malattie prima incurabili, ma anche spingersi oltre, perfezionandole ulteriormente. È il caso della beta-talassemia – ricordata l’8 maggio di ogni anno con la International Thalassaemia Day – una malattia genetica tipica del bacino del Mediterraneo e dell’Asia, per cui neanche un anno fa è stata approvata in Europa la prima terapia genica, oggi disponibile in Germania e in procinto di arrivare anche in altri Paesi, tra cui l’Italia. Un traguardo che non ha fermato la ricerca, che continua ad avanzare testando strategie sempre più innovative – come l’editing genomico – che potrebbero andare ad aggiungersi alla terapia genica.
La talassemia
“Avete presente quando la batteria del telefono cellulare si sta scaricando e le funzionalità dell’apparecchio si riducono drasticamente? Quel telefono cellulare rappresentava me stesso, quando ero malato”. Sono le parole di Salvatore Lo Re, uno dei circa 7mila pazienti con talassemia in Italia, tra i primi ad aver sperimentato la terapia genica messa a punto presso l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (Tiget) di Milano. La perdita di “energia” di cui parla Lo Re, è uno dei sintomi della beta-talassemia, una malattia genetica grave, causata da mutazioni del gene della beta-globina (β A-T87Q globina) che induce la riduzione o assenza della subunità beta dell’emoglobina, la proteina deputata al trasporto dell’ossigeno nel sangue. Chi ne è affetto presenta una grave anemia cronica che può essere compensata solo con continue trasfusioni, per mantenere adeguati livelli di emoglobina. La talassemia in realtà esiste in due forme, a seconda che il difetto riguardi la catena polipeptidica alfa o beta dell’emoglobina. La forma più diffusa nel bacino del Mediterraneo è però la beta-talassemia, che a sua volta presenta una forma quasi sempre asintomatica (la talassemia minor) e una più grave, denominata major o malattia di Cooley, dipendente da trasfusione. Inoltre a seconda del tipo di mutazione presente nel gene beta globinico – tra le oltre 200 esistenti – si può parlare di forma β0, in cui la sintesi delle catene beta è completamente assente e di forma β+ in cui la sintesi è solo ridotta, ma porta nella maggior parte dei casi a una beta-talassemia trasfusione-dipendente (TDT).
I trattamenti
Finora le cure disponibili consistevano nel trapianto di midollo osseo o di cellule staminali da donatori compatibili o trasfusioni continue di sangue (ogni 15-20 giorni). Il primo approccio però, sebbene curativo, ha poche possibilità di successo in assenza di un donatore compatibile per la scarsa disponibilità di donatori e l’alto numero di pazienti in Italia. Le trasfusioni invece sono solo un approccio sintomatico e presentano diversi effetti collaterali a carico di svariati organi per via dell’accumulo di ferro (a cui in parte si rimedia con i trattamenti ferro-chelanti). Un’altra possibilità è la somministrazione di idrossiurea, in grado di aumentare la sintesi di emoglobina fetale (HbF) – una forma di emoglobina presente nell’organismo prima della nascita e poi silenziata, composta da catene alfa e gamma – ma non a concentrazione adeguate per prevenire completamente le complicanze della beta-talassemia. Vi sono, infine, le terapie avanzate ideate per “correggere” il gene globinico difettoso o per ripristinare l’attività della HbF, in modo da sopperire alla carenza dell’emoglobina adulta.
La terapia genica
Lo scorso giugno la Commissione Europea ha autorizzato la terapia genica LentiGlobin, con il nome commerciale Zynteglo. Si tratta di un trattamento in grado di aggiungere copie funzionali di una forma modificata del gene della β-globina nelle cellule staminali ematopoietiche del paziente stesso. Le cellule del paziente vengono prelevate, modificate in laboratorio utilizzando un vettore lentivirale in grado di inserire il gene della β A-T87Q globina nelle cellule, e reinfuse. A questo punto il paziente è potenzialmente in grado di produrre HbA T87Q, un’emoglobina derivata dalla terapia genica, in quantità tali da ridurre notevolmente o eliminare completamente la necessità di trasfusioni. La terapia genica sviluppata dall’azienda bluebird bio è indicata per pazienti di età pari o superiore a 12 anni con beta-talassemia trasfusione-dipendente con genotipo non β0 /β0, per i quali il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (CSE) è appropriato ma non è disponibile un donatore familiare di CSE con antigene leucocitario (HLA) compatibile. La somministrazione una tantum della terapia dà la possibilità di diventare indipendenti dalle trasfusioni, condizione che ci si aspetta sia mantenuta per tutta la vita.
In Italia è in atto il processo di negoziazione con l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) per facilitare l'accesso alla terapia per i pazienti per cui il trattamento è indicato. Mentre, la terapia sperimentata da Salvatore Lo Re, messa a punto presso dal Tiget e che si basa su una strategia molto simile, è ancora in fase di sperimentazione clinica e valutazione. I primi risultati (positivi per sicurezza ed efficacia) dello studio clinico condotto in Italia dal 2015, sono stati pubblicati lo scorso anno su Nature.
Editing genomico
C’è ancora un’altra possibilità di cura per i talassemici e consiste nell’editing genomico. Tutto in questo caso ruota intorno alla proteina BCL11A che, è ormai assodato, funziona come un interruttore in grado di spegnere la produzione di emoglobina fetale dopo la nascita. L’idea quindi è quella di usare l’editing genomico per reprimere l’espressione di BCL11A e indurre così la produzione di HbF in modo da sopperire alla carenza della forma adulta. Due aziende, CRISPR Therapeutics e Vertex Pharmaceuticals Incorporated, hanno sviluppato un approccio (denominato CTX001) basato su CRISPR-Cas9 che è attualmente in fase di valutazione in uno studio clinico di Fase I/II, avviato nel 2018 e ora in corso negli Stati Uniti, Canada ed Europa (Italia, Germania e Gran Bretagna), su soggetti con beta-talassemia trasfusione-dipendenti. La procedura prevede il prelievo delle cellule staminali ematopoietiche del paziente che vengono modificate geneticamente per produrre elevati livelli di emoglobine fetali e reinfusi nel paziente (tecnica definita “ex-vivo”, perché la modifica delle cellule avviene in laboratorio, fuori dall’organismo). Un altro studio clinico di Fase I/II è stato avviato da Sangamo Therapeutics, per valutare un approccio simile, che utilizza però come tecnica di editing genomico Zinc-finger nucleases (ZFN).
Perfezionarsi
Ma perché sviluppare un trattamento di editing genomico se c’è già una terapia genica approvata? Una prima ovvia risposta è che per riuscire a sconfiggere una malattia è sempre meglio provare a combatterla su più fronti. Nello specifico, Gibran Ali e Muhammad Akram Tariq, dell’Institute of Regenerative Medicine di Lahore in Pakistan, in una review pubblicata su Nature lo scorso 30 aprile, ricordano, per esempio, che benché gli approcci di terapia genica basati sull’utilizzo di vettori lentivirali (sia per il gene della beta-globina, sia per la riattivazione della HbF) siano promettenti, integrano il gene trasdotto nel genoma in modo semi-casuale anche in siti non bersaglio con la possibilità di generare trascrizioni anomale, che potrebbero scatenare l'oncogenesi. Gli approcci di modifica del genoma basati su CRISPR hanno invece, come riportano ancora gli autori, “il vantaggio di modificare un singolo bersaglio genomico e una specificità di modifica del genoma più elevata”. Un buon motivo secondo gli esperti per concentrarsi anche su questo approccio. Ali, Tariq e colleghi, buttano però lo sguardo ancora più in là, passando in rassegna vantaggi e svantaggi delle tecniche più consolidate di editing genomico, da CRISPR-Cas9 (che presenta anch’esso dei limiti, come inserzioni ed eliminazioni nel sito target e interruzione del DNA genomico in target non specifici), a quelle più innovative. Ne è un esempio il base-editing, un’evoluzione di CRISPR che si limita a correggere una sola base nel gene difettoso, invece di tagliare la doppia elica del DNA (come fa CRISPR-Cas9), senza avere quindi le imprecisioni dovute ai meccanismi automatici di riparazione cellulare e riducendo al minimo gli errori. Un sistema di editing che potrebbe essere utile per correggere le malattie genetiche causate dalla mutazione di una sola lettera, inclusa la forma più comune di anemia falciforme. Infine, c’è anche il prime-editing, in cui il sistema CRISPR è fuso con un enzima specifico e la guida di RNA non solo indica il sito su cui effettuare la modifica ma suggerisce anche quali sono gli errori da correggere (una sorta di “trova e sostituisci”). Anche in questo caso, non essendoci il doppio taglio, si riduce la possibilità di mutazioni “off target” (fuori dal bersaglio) e la correzione e più precisa e malleabile rispetto anche al base-editing.
In futuro potrebbe essere usato per aumentare il livello di HbF. Tutte tecniche molto promettenti per la cura della beta-talassemia insomma, ma che per ora necessitano di ulteriori ricerche prima di poter essere utilizzate in sicurezza sugli esseri umani.