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terapia genica, fegato, vettori virali

L’organo in questione è stato mantenuto in vita fuori dal corpo umano grazie a una macchina di perfusione per testare alcuni tra i più comuni vettori virali in uso per la terapia genica

“Ricordate che tutti i modelli sono sbagliati; la domanda pratica è quanto devono essere sbagliati per non essere utili”. Questa frase dello statistico britannico George Box è un costante promemoria del fatto che nella ricerca non esiste il modello “giusto”, ma solo modelli che riproducono più o meno fedelmente la realtà. Questo concetto risuona in uno studio pionieristico pubblicato recentemente su Nature Communications dagli scienziati del Children’s Medical Research Institute (CMRI) in Australia. I ricercatori hanno testato una terapia genica su un intero fegato umano, mantenuto in vita fuori dal corpo umano grazie a una macchina di perfusione normotermica. Al contrario delle linee cellulari o dei modelli animali, questo sistema riproduce la reale complessità del fegato umano ed è un prezioso strumento per testare nuove terapie. Un traguardo scientifico importante, di cui parliamo a pochi giorni dal World Liver Day (19 aprile), un’iniziativa delle società scientifiche di epatologia internazionali per sensibilizzare la popolazione sull’importanza del fegato.

Le terapie basate sul trasferimento o la modifica di geni hanno aperto un nuovo entusiasmante capitolo nel trattamento delle malattie genetiche. Ma prima di poter entrare nella fase clinica ed essere somministrate ai pazienti, come per tutti i tipi di farmaci, queste terapie devono seguire un iter di sperimentazione su modelli preclinici, in vitro e in vivo, per valutare la loro sicurezza ed efficacia. Il problema è che nessun modello, seppur innovativo, riproduce al 100% la realtà. I modelli cellulari tridimensionali, o organoidi, spesso derivati da cellule staminali, riproducono in miniatura le caratteristiche dell’organo bersaglio, ma non le sue interazioni con gli  altri organi o con il sangue. Gli organismi modello, come i roditori o i primati, sono più efficaci per valutare eventuali effetti sistemici, ma la loro fisiologia è diversa da quella di un essere umano. Esistono anche soluzioni “ibride”, come i cosiddetti modelli “xenograft”, che consistono nel trapianto di cellule umane in animali geneticamente modificati e riassumono in maniera più robusta le caratteristiche molecolari e fisiologiche di uno specifico tessuto umano, ma in un contesto artificiale e poco realistico.

Per questo motivo, la ricerca sui modelli preclinici è in continua evoluzione: testare lo stesso farmaco su più modelli, selezionando via via quello “meno sbagliato” per rispondere a ogni nuova domanda, riduce la possibilità di commettere errori. Per aggiungere un tassello alla ricerca preclinica, i ricercatori del CMRI hanno messo a punto un nuovo modello per testare una terapia genica basata su virus adeno-associati (AAV) sul fegato. Gli AAV sono tra i più comuni vettori in uso nella terapia genica, perché sfruttano la naturale capacità di questi virus - deprivati dei geni nocivi - di trasferire il proprio materiale genetico all’interno delle cellule.

La scelta è ricaduta sul fegato poiché rappresenta una sfida nell’ambito dei modelli preclinici: è composto da diversi tipi di cellule, ha straordinarie capacità rigenerative, e ha una struttura e organizzazione uniche e particolarmente difficili da ricreare in laboratorio. Gli organoidi e i modelli animali, compresi gli xenograft, riescono solo in parte a riprodurre questa complessità. L’idea dei ricercatori è stata quindi quella di usare un vero e proprio fegato. Non una replica in miniatura derivata da cellule staminali, ma l’intero organo, mantenuto in vita fuori dal corpo e irrorato da sangue umano grazie a un sistema di perfusione normotermico (a 36°C, la stessa temperatura del corpo umano).

Un fegato conservato secondo le procedure tradizionali, in una soluzione fredda statica a 2-5 gradi, rimane in vita fuori dal corpo per un periodo di massimo 12 ore, dopo le quali la sua vitalità diminuisce proporzionalmente. Con la perfusione normotermica, invece, il fegato viene continuamente rifornito di ossigeno e nutrienti a temperatura e pressione fisiologiche: una specie di “corpo in miniatura” con il compito di ricreare le condizioni ideali per il mantenimento dell’omeostasi e della normale attività metabolica. L’estensione del tempo di sopravvivenza del fegato, fino a 5 giorni, consente non solo di eseguire vari trattamenti, ma anche di prolungare la finestra di tempo entro cui l’organo risulta idoneo al trapianto. Un articolo pubblicato lo scorso anno su Nature Biotechnology, ad esempio, ha riportato il primo caso di trapianto di un fegato malato, conservato e rigenerato per 3 giorni in una macchina da perfusione normotermica.

Gli scienziati del CMRI hanno usato la stessa tecnica di perfusione per generare un modello preclinico e studiare il “delivery” (consegna) della terapia a base di AAV su un organo intero e la sua interazione con il comparto intravascolare e con i vari tipi di cellule che compongono il fegato. I ricercatori hanno verificato il trasferimento del materiale genetico attraverso due metodi: l’analisi della fluorescenza al microscopio (i vettori contenevano una proteina fluorescente) e il sequenziamento del DNA e RNA isolati da campioni del fegato prelevati tramite biopsia (2 e 5 giorni dopo l’iniezione degli AAV). L’esperimento ha confermato che le varianti selezionate – già testate su altri modelli preclinici e alcune anche in clinica – veicolano con successo il gene terapeutico all’interno delle cellule epatiche.

Anche questo modello, come gli altri, ha delle limitazioni. Il primo problema è la carenza di organi: basti pensare che più di 1000 persone sono in lista per un trapianto di fegato (motivo per il quale si cercano spasmodicamente terapie alternative, ne abbiamo parlato qui) e che l’attesa media per è di almeno 5 mesi. Per questo studio, i ricercatori hanno usato due fegati che erano stati giudicati non idonei al trapianto, e destinati quindi per la ricerca (previo consenso del donatore). Fattori come le differenze genetiche tra i donatori, l'età, il sesso e lo stato di malattia, possono inoltre influenzare in modo significativo le prestazioni delle terapie.

Ma al netto dei suoi limiti, questo modello fornisce la possibilità di integrare i dati prodotti negli altri modelli preclinici e di esplorare meglio come funzionano i vettori AAV in condizioni ancora più simili a quelle umane. Questo potrebbe portare a nuove versioni di AAV, migliorando così i trattamenti di terapia genica per le malattie che colpiscono il fegato.

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