Terapia genica

Uno studio preclinico ha dimostrato la capacità di una terapia genica di ripristinare l’effetto della levodopa e come il danno mitocondriale possa scatenare la malattia

È partita la corsa per lo sviluppo di una terapia genica per il morbo di Parkinson e in questo ambito uno studio pubblicato lo scorso novembre su Nature ha aggiunto dei tasselli di conoscenza in più. Un gruppo di ricercatori - della Northwestern University di Chicago, del Weill Cornell Medical College di New York e dell’università di Siviglia – ha infatti dimostrato, in un modello animale, di poter ripristinare l’effetto della levodopa – farmaco di elezione per il trattamento della malattia ma che perde negli anni la sua efficacia – grazie a una terapia genica. Inoltre, ha dimostrato come il danno dei mitocondri nei neuroni che rilasciano la dopamina possa innescare i primi eventi del Parkinson. Tutte informazioni che possono aprire la strada allo sviluppo di nuove terapie.

LEVODOPA E TERAPIA GENICA 

La levodopa, precursore del neurotrasmettitore dopamina, è utilizzata da tempo per trattare i sintomi del Parkinson, patologia in cui i neuroni dopaminergici vanno incontro a degenerazione e morte con conseguente scomparsa della dopamina. Una volta arrivata nei neuroni dopaminergici, infatti, la levodopa viene convertita nel neurotrasmettitore supplendo così alla sua carenza. Con il passare degli anni però il farmaco diventa meno efficace, a causa dell'inesorabile perdita di neuroni che rilasciano dopamina.

Per ripristinarne l’effetto i ricercatori hanno utilizzato un vettore virale adenoassociato (AAV) che trasporta un costrutto di espressione per la decarbossilasi dell'aminoacido aromatico (AADC), capace di convertire la levodopa in dopamina. Il vettore è stato somministrato direttamente nella regione del cervello dove si trovano i neuroni dopaminergici (lo striato dorsale). La terapia genica ha così ripristinato la capacità dei neuroni della substantia nigra di convertire la levodopa in dopamina, migliorando così la deambulazione dei pazienti. Quello che i ricercatori hanno osservato è che l’espressione dell’AADC striatale ha ricreato le condizioni tipiche di un cervello sano e ha eliminato l'attività cerebrale aberrante responsabile della difficoltà di movimento.

IL DANNO MITOCONDRIALE

Ma non è questo l’unico risultato emerso dallo studio. Sempre nello stesso studio, infatti, i ricercatori hanno dimostrato che la perdita di funzionalità del complesso mitocondriale I (MCI) nei neuroni dopaminergici della substantia nigra scatena il morbo di Parkinson. Da tempo gli studiosi si chiedono se il danno mitocondriale contribuisca alla patogenesi della malattia di Parkinson o ne sia una conseguenza. Per cercare di capirlo, il team di ricerca ha usato la genetica intersezionale per interrompere la funzione di MCI nei neuroni dopaminergici di un modello murino. Il danno indotto nei mitocondri – la “centrale elettrica” della cellula – ha causato un cambiamento che ha consentito la sopravvivenza neuronale, ma ha innescato una progressiva perdita del fenotipo dopaminergico negli assoni nigrostriatali. I ricercatori hanno osservato un deterioramento accompagnato da deficit di apprendimento e motorio, ma non da un chiaro parkinsonismo sensibile alla levodopa, che è emerso solo dopo la successiva perdita di rilascio di dopamina nella substantia nigra.

NUOVE POSSIBILI TERAPIE 

Gli autori hanno così dimostrato che il danno dei mitocondri all'interno dei neuroni che rilasciano dopamina è sufficiente a innescare una sequenza di eventi fedele a ciò che accade ai circuiti cerebrali nella malattia di Parkinson. Quando i mitocondri iniziano a spegnersi infatti, la capacità dei neuroni di svolgere il proprio lavoro nel cervello è compromessa perché viene meno la fonte di energia e muoiono. La scoperta apre una nuova strada per sviluppare terapie in grado di proteggere la funzione dei mitocondri.

“Gli scienziati devono sapere cosa causa la malattia di Parkinson per poter sviluppare terapie efficaci in grado di rallentarla o fermarla”, ha affermato il coordinatore dello studio James Surmeier, professore di neuroscienze presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine. “Questa è la prima volta che viene dimostrato, in un modello animale, che il danno dei mitocondri nei neuroni che rilasciano la dopamina è sufficiente a causare un parkinsonismo simile all'uomo - ha proseguito - Ora che lo abbiamo compreso possiamo concentrare la nostra attenzione sullo sviluppo di terapie per preservare la loro funzione e rallentare la perdita dei neuroni dopaminergici”.

PREVENZIONE E TRATTAMENTO PRECOCE

Il lavoro ha anche fornito un modello della malattia di Parkinson precoce, tipico della fase precedente a quella della comparsa dei sintomi clinici. La lenta e progressiva degenerazione dei neuroni dopaminergici nel modello utilizzato dai ricercatori ha permesso di capire cosa potrebbe accadere nel cervello molto prima che si sviluppi il deficit motorio. Un dato che potrebbe aiutare a identificare le persone che si trovano nelle prime fasi della malattia di Parkinson. “Questo nuovo modello ‘simile a quello umano’ può aiutarci a sviluppare test in grado di identificare chi svilupperà la malattia di Parkinson nei cinque o 10 anni a seguire, ha concluso Surmeier. Se fosse davvero possibile, ciò aprirebbe la via a trattamenti precoci in grado di arrestare la progressione della malattia.

Con il contributo incondizionato di

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