Pacemaker

È meno invasivo dei pacemaker tradizionali, non necessita di fili o batterie e si dissolve dopo poche settimane dall’impianto. Il nuovo dispositivo è stato testato sugli animali 

Un pacemaker temporaneo serve solo per il tempo necessario a gestire un problema transitorio al cuore. Ma l’impianto e la rimozione possono danneggiare il tessuto cardiaco. Per ridurre il rischio di complicanze o infezioni, un gruppo di ricerca statunitense ha realizzato il primo pacemaker biodegradabile, che viene riassorbito dall’organismo dopo qualche settimana. Il dispositivo, descritto a fine giugno su Nature Biotechnology, è più piccolo e meno invasivo rispetto ai pacemaker tradizionali: funziona senza cavi o batterie, grazie a una rete wireless. Testato con successo sugli animali, in futuro potrebbe aiutare i pazienti dopo un intervento al cuore o un infarto, e poi dissolversi spontaneamente, senza bisogno di estrazione chirurgica.  

PACEMAKER PERMANENTI E TEMPORANEI

Il pacemaker è un piccolo dispositivo elettronico (7x6x1 cm) a batterie che viene posizionato nel torace per regolare il ritmo cardiaco quando è troppo lento o irregolare. È composto da un generatore di impulsi elettrici e uno o più elettrocateteri, sottili fili metallici posizionati per via transvenosa che registrano il battito del cuore . Gli elettrocateteri trasmettono continuamente segnali al generatore di impulsi elettrici, che ha la funzione di normalizzare il ritmo cardiaco quando è alterato.  Ogni anno circa un milione di nuovi pacemaker vengono impiantati in tutto il mondo, di cui 45mila in Italia, con un tasso di complicazione (pneumotorace, ostruzione venosa, endocardite) compreso tra l’1% e il 6%.

Tipicamente il pacemaker rappresenta una soluzione permanente che diventa una parte integrante dell’organismo. In media la durata di un pacemaker è di 4-5 anni, dopodiché va sostituito con un nuovo pacemaker. Non è possibile cambiare unicamente la batteria perché questa è fusa all’interno del pacemaker stesso. Tale procedura comporta un vero e proprio intervento chirurgico, seppur breve e con anestesia locale.

Questo però vale soltanto se il problema al cuore richiede un trattamento di lunga durata, come nei casi di fibrillazione atriale, bradicardia o insufficienza cardiaca croniche. Per i problemi transitori, invece, si usano i pacemaker cosiddetti temporanei, che rimangono in funzione solo qualche giorno o settimana – il tempo necessario, ad esempio, per normalizzare la frequenza cardiaca dopo un’operazione al cuore o un infarto. Quando non serve più, il pacemaker temporaneo viene rimosso e il tutto si conclude qui. A meno che non costituisca un "ponte" per l’impianto successivo di un dispositivo permanente.

I PACEMAKER "SENZA FILI"

I pacemaker temporanei sono composti da un generatore posizionato in una "tasca" sottocutanea, collegato a un sistema di controllo esterno e a una serie di elettrocateteri che raggiungono il cuore per via transcutanea o transvenosa. L’hardware parzialmente esterno, però, aumenta il rischio di contrarre infezioni e può essere danneggiato dai movimenti del paziente o di chi se ne prende cura. Anche l’estrazione chirurgica del pacemaker comporta dei rischi, poiché può causare lacerazioni del tessuto cardiaco.

L’idea, nata già nei primi anni Settanta, è quella di impiantare dei dispositivi completamente intracardiaci, senza tasca sottocutanea o elettrocateteri. Pacemaker di questo tipo sono cosiddetti "senza fili" (dall’inglese "leadless") e sono il 90% più piccoli di quelli tradizionali. L’impianto può avvenire attraverso la vena femorale tramite l’uso di un catetere e non richiede l’incisione del torace né la tasca sottocutanea. Generatore ed elettrodi, infatti, costituiscono un’unica "cardiocapsula" miniaturizzata e posizionata direttamente nel ventricolo destro.

IL PRIMO PACEMAKER RIASSORBIBILE

I ricercatori dell’Università Northwestern di Chicago e dell’Università George Washington dell’omonima città hanno fatto un ulteriore passo in avanti: hanno ideato un dispositivo senza fili completamente impiantabile e riassorbibile dall’organismo. Contiene, infatti, solo materiali biodegradabili, come metalli e composti organici – magnesio, PGLA e una nanomembrana di silicone. Una volta finito il periodo di trattamento non c’è bisogno di alcun intervento di rimozione poiché il pacemaker viene naturalmente biodegradato per via metabolica e riassorbito dall’organismo, senza lasciare traccia. L’intero sistema è piccolo e sottile (1,6 cm x 1,5 cm) e lo spessore è di soli 250 μm (ovvero 0,25 mm).

Il pacemaker funziona interamente grazie al trasferimento di energia via wireless. Può essere controllato dall’esterno senza bisogno di fili, batterie o tasche sottocutanee. La durata è flessibile: dipende dai materiali utilizzati e può essere modificata in base alle esigenze di ogni paziente.

DAI TEST SUGLI ANIMALI ALLE PROSPETTIVE FUTURE

I ricercatori hanno testato il sistema su cellule cardiache umane in vitro e su diversi modelli animali (topi, ratti, conigli e cani). I risultati dei test sono stati molto buoni: il pacemaker è riuscito a mantenere il ritmo cardiaco nella normalità in tutti i modelli, senza causare infiammazione o alterazioni a carico del tessuto cardiaco o di altri organi. Il dispositivo viene riassorbito per la maggior parte nell’arco di 3 settimane dall’impianto e dopo 12 settimane scompaiono anche gli ultimi residui. 

Benché la ricerca sia ancora negli stadi preliminari, i benefici potrebbero migliorare di molto la qualità di vita dei pazienti. Le applicazioni, scrivono gli autori, potrebbero riguardare diverse categorie di persone, come quelle affette da blocco atrio-ventricolare dovuto a miocardite o da fibrillazione atriale dovuta a un’operazione al cuore.

L’impiego di questi dispositivi aiuterebbe il paziente a recuperare la funzionalità cardiaca nel post-operatorio, riducendo le complicanze degli apparecchi tradizionali. La scomparsa dell’hardware esterno e della tasca sottocutanea diminuisce il rischio di infezioni e i possibili danni da rimozione. Il paziente, inoltre, avrebbe una maggiore libertà di movimento dopo l’operazione e sarebbe quindi meno soggetto a eventi di trombosi venosa o polmoniti.

Con il contributo incondizionato di

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