CRISPR, Casgevy

La notizia dell’approvazione di Casgevy in UK e in USA è ancora fresca di stampa eppure diversi gruppi sono già al lavoro per superare i limiti della prima terapia basata sul sistema di editing genomico 

Lo scorso novembre la Gran Bretagna è stato il primo Paese al mondo a dare il via libera all’Autorizzazione In Commercio di Casgevy per la beta talassemia e l’anemia falciforme, dopo un mese è stata la volta degli Stati Uniti che hanno dato prima l’ok per l’anemia falciforme e successivamente, all’inizio del 2024, per il secondo tipo di emoglobinopatia (la talassemia). Nei prossimi mesi ci si aspetta il semaforo verde anche dalla Commissione Europea, che dovrebbe confermare l’opinione positiva dell’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) ricevuta lo scorso dicembre. Per passare dall’invenzione delle forbici genetiche Cas9 alla prima terapia approvata sono bastati poco più di dieci anni, e l’entusiasmo per il traguardo raggiunto in tempi record è più che giustificato. Eppure un articolo della MIT Technology Review ha già acceso i riflettori sulle prossime sfide. Il titolo è: “Vertex ha sviluppato una cura CRISPR. Ma è già partita la caccia a qualcosa di meglio”. 

Casgevy (anche nota con il nome exagamglogene autotemcel o exa-cel) ambisce a essere una cura definitiva, in inglese si usa l’espressione “one shot” per dire che basta un’unica somministrazione, e questo rappresenta certamente un punto di forza. È un trattamento autologo e su misura, ovvero confezionato per ogni singolo paziente modificando le sue cellule ematopoietiche per riavviare la produzione di emoglobina funzionante. Questo è un bene (perché a differenza del trapianto di midollo da donatore non ci sono rischi di rigetto), ma anche un male (la procedura è complessa e costosa, certamente non applicabile su larga scala in Africa dove l’anemia falciforme è particolarmente diffusa). Casgevy ha anche un altro difetto, questa volta in comune con i trapianti di midollo da donatore sano compatibile: per fare spazio alle nuove cellule ematopoietiche bisogna prima eliminare le vecchie dal midollo osseo, con l’aiuto di un agente alchilante (busulfan). In pratica si esegue un “condizionamento mieloablativo” impiegando un farmaco chemioterapico che si lega al DNA. Questo pre-trattamento è più breve rispetto alla chemioterapia usata per i pazienti oncologici, ma è accompagnato comunque da effetti collaterali come nausea, diarrea, disappetenza. Inevitabilmente espone a un rischio aumentato di infezioni, finché il sistema immunitario non viene ricostituito, perciò i pazienti devono rimanere in ospedale per alcune settimane. Infine, questo approccio può comportare conseguenze a lungo termine tra cui l’infertilità, perché il busulfan agisce anche sulla gametogenesi, come avverte la stessa Vertex Pharmaceuticals rivolgendosi ai pazienti interessati a exa-cel: “Dopo aver ricevuto il farmaco per il condizionamento, è possibile che non riusciate a restare incinta o a diventare padri. Prima del trattamento dovreste discutere con il vostro medico le opzioni disponibili per preservare la fertilità”. Il baratto tra salute e futuri progetti di genitorialità pone molti malati davanti a una scelta difficile, soprattutto se sono troppo giovani per avere cellule sessuali da prelevare e conservare, se sono troppo poveri per potersi permettere la crioconservazione dei gameti e (successivamente) i cicli di fecondazione assistita, e se i sistemi sanitari e le assicurazioni non coprono questo tipo di spese. Una tematica spinosa che è stata affrontata in un precedente articolo.

Per cercare di superare le limitazioni della prima terapia CRISPR sono ipotizzabili almeno tre strade, che presentano livelli di difficoltà diversi tra loro. La prima via consiste nel continuare a modificare le cellule del paziente fuori dal corpo come si fa ora, ma applicando forme di condizionamento più leggere e selettive di quelle in uso oggi per fare loro spazio all’interno del midollo. Un’alternativa promettente sarebbe passare dall’approccio ex vivo a quello in vivo, iniettando direttamente dentro al corpo le molecole necessarie per la correzione genetica. La terza idea, infine, è quella più acerba dal punto di vista scientifico: si tratterebbe di rinunciare del tutto all’editing genetico, cercando di mimare l’azione di Casgevy attraverso un farmaco classico.   

Per alleggerire il peso del condizionamento, in particolare, bisognerebbe mettere a punto un trattamento in grado di discriminare le cellule ematopoietiche da distruggere dalle altre, che invece vogliamo preservare. Uno stratagemma che viene studiato da alcuni anni consiste nell’impiego di anticorpi mirati contro molecole presenti sulla superficie delle cellule bersaglio. Questo filone di ricerca viene esplorato dalla stessa Vertex e da altre società concorrenti, come Beam Therapeutics. I risultati del condizionamento con anticorpi si sono dimostrati buoni su studi preclinici su topi e scimmie (si veda in particolare questo lavoro su Nature Communications), anche se la morte di un paziente arruolato in una sperimentazione clinica ha segnato una battuta di arresto.   

La strategia dell’editing in vivo ha già dimostrato di poter funzionare quando l’organo interessato è il fegato e fervono le ricerche per mettere a punto vettori capaci di raggiungere altri distretti corporei. Per correggere i difetti genetici che causano le emoglobinopatie, ovviamente, occorre sviluppare dei sistemi (virus o nanoparticelle) che trasportino CRISPR nelle cellule progenitrici del sangue. Eliminare i passaggi di estrazione e trapianto abbasserebbe notevolmente i costi complessivi del trattamento e semplificherebbe anche gli aspetti logistici, perché gli interventi potrebbero essere svolti in un contesto ambulatoriale anche nei Paesi africani. Almeno questa è la speranza espressa dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, visto che il prezzo di listino di Casgevy negli Stati Uniti è di 2,2 milioni di dollari.

Exagamglogene autotemcel funziona rimuovendo un freno che blocca la produzione di emoglobina fetale, in modo che questa molecola possa sopperire ai difetti che l’emoglobina adulta presenta nei malati di anemia falciforme e talassemia. Ed ecco l’idea più ambiziosa: mettere a punto un farmaco classico che sblocchi lo stesso processo, legandosi a una proteina che influenza l’attivazione del gene di interesse (BCL11A) ma senza modificare il DNA. Una pillola da ingoiare sarebbe molto più facile da distribuire a livello globale, anche se avrebbe il grosso difetto di richiedere ripetute somministrazioni anziché un unico shot. “Il gene BCL11A produce un fattore di trascrizione, un tipo di proteina floscia e informe, priva delle pieghe e degli angoli precisi su cui i chimici possono puntare i farmaci”, scrive Antonio Regalado sulla MIT Technology Review. Il direttore scientifico di Vertex, David Altshuler, gli ha confermato che la sfida è difficile, in effetti nessun farmaco attualmente in commercio funziona legandosi a un fattore di trascrizione. Comunque l’azienda di Boston avrebbe un gruppo di una cinquantina di persone che lavorano all’obiettivo e anche Novartis ci starebbe provando, ma i dettagli scientifici purtroppo sono ancora top secret.

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