Graziella Pellegrini: “I riconoscimenti fanno piacere, ma la parte importante è quello che si fa. Servono motivazione, passione e predisposizione per dedicarsi alla ricerca”
La prof.ssa Graziella Pellegrini - professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Vita, co-fondatrice e direttrice della Ricerca e Sviluppo dello spin-off universitario Holostem Terapie Avanzate e coordinatrice della terapia cellulare al Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” dell’Università di Modena e Reggio Emilia - ha recentemente vinto l’European Tech Women Awards. Riconoscimento promosso dal Department for International Trade britannico e annunciato durante l’apertura della London Tech Week, che si è svolta dall’1 all’11 settembre. Le 24 vincitrici sono state premiate per la loro capacità di creare innovazione a livello europeo nei loro settori di competenza, che per Pellegrini è quello della medicina rigenerativa. Osservatorio Terapie Avanzate ha colto l’occasione per intervistarla e approfondire le sue ricerche sulle terapie cellulari.
Partiamo dall’inizio: com’è iniziato il suo percorso nel mondo della medicina rigenerativa?
Il mio primo contatto con la medicina rigenerativa è stato un vero e proprio battesimo di fuoco perché ho iniziato con le terapie cellulari per i grandi ustionati. Prima di arrivare a questo, il percorso è stato piuttosto particolare. La mia formazione è inconsueta rispetto a quello che faccio ora: ho una prima laurea in chimica e, fin dall’inizio, mi sono interessata alla chimica finalizzata alla ricerca di una terapia. Per questo motivo ho inserito diversi esami di biologia nel percorso di studi, in modo da approfondire l’approccio biologico per la comprensione dei meccanismi cellulari e per la ricerca di possibili terapie. Successivamente, ho preso una laurea in farmacia interessandomi ad altri argomenti e tecniche del mondo scientifico, tra cui la biochimica e la coltivazione cellulare all’Istituto Tumori di Genova. In quegli anni sono state pubblicate le primissime ricerche di medicina rigenerativa fatte dal professor Howard Green della Harvard Medical School di Boston, che era riuscito a trattare alcune persone con gravi ustioni grazie alle cellule della pelle coltivate in laboratorio. Questa cosa mi ha affascinata e folgorata, ha proprio colpito nel segno. Ho pensato che la possibilità di ricostruire gli organi in vitro e trovare soluzioni terapeutiche per alcune patologie grazie alle nostre stesse cellule fosse la strada verso la medicina del futuro. Ho abbandonato l’idea della chimica del farmaco, consapevole che la chimica mi sarebbe servita per mille motivi ma che un sistema del genere sarebbe stato incredibilmente più perfetto. Mi sono letteralmente innamorata di questo settore e, da allora, mi ci sono dedicata completamente.
E le sue ricerche dove l’hanno portata?
Ho cominciato riproducendo - assieme a Michele De Luca, oggi professore ordinario al Dipartimento di Scienze della Vita e Direttore del Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” dell’Università di Modena e Reggio Emilia - la procedura ideata dal professor Green per il trattamento degli ustionati. Nel corso di questi studi è emersa la curiosità e l’interesse scientifico verso il funzionamento degli altri epiteli del corpo, tra cui la superficie dell’occhio. Ho iniziato quindi a studiare l’occhio, esplorandone la superficie e scoprendo dove si trovano le cellule staminali limbari nell’uomo. Grazie alla collaborazione con altri esperti, è emersa la reale possibilità di trapiantare l’epitelio limbo-corneale danneggiato. All’inizio il sistema era esageratamente fragile e la prima pubblicazione riportava quello che era a tutti gli effetti un prototipo, una dimostrazione della funzionalità a livello teorico ma che non avrebbe potuto essere un trattamento. Poi ho dedicato degli anni a individuare dei supporti fisiologici per poter utilizzare questo strumento per la terapia in maniera concreta. Alla fine, siamo arrivati all’obiettivo e abbiamo iniziato a trattare i pazienti. I risultati erano spettacolari! Ovviamente si parla di una certa categoria di pazienti, perché non tutti i ciechi possono recuperare la vista con questa procedura, ma solo quelli che hanno un deficit di cellule staminali limbari da moderato a grave causato da ustioni oculari, come ad esempio da uno schizzo di calce. Queste lesioni riducono il numero di staminali limbari, che non sono più in grado di rigenerare le cellule danneggiate o invecchiate della cornea, con dei risvolti importanti per la vista. Ci siamo entusiasmati e abbiamo avviato degli studi clinici clinici multicentrici, studiando successi, fallimenti e le loro cause. Quando la cosa stava iniziando ad andare bene, e a essere riproducibile, ci siamo scontrati con le nuove regolamentazioni europee.
Come mai è stato tanto difficile avere a che fare con il sistema normativo per le terapie avanzate?
Perché ho dovuto ricominciare tutto da capo: mi sono rimessa a studiare, a seguire corsi di formazione dell’European Medicines Agency (EMA) e dell’Istituto Superiore di Sanità, a parlare con esperti di normative per cercare di conciliare la logica dell’approvazione di un farmaco chimico con qualcosa di biologico, vivo e dinamico quali sono le cellule. Purtroppo, dal 2007 al 2012 abbiamo dovuto sospendere i trapianti in attesa dei nuovi percorsi autorizzativi. All’inizio ho pensato fosse un’impresa impossibile ma, dopo diversi anni, tanta pazienza e tanti investimenti, ce l’abbiamo fatta. Oltre ai dati raccolti nei dieci anni precedenti, ci hanno chiesto un trial clinico confermatorio a livello europeo, che coinvolge 19 centri in 7 Paesi e circa 80 pazienti e che è in fase conclusiva. Holoclar, la terapia avanzata per l’occhio, ha ricevuto l’approvazione condizionata per l’immissione in commercio nel 2015 dall’EMA e rientra nei prodotti di ingegneria tissutale, cioè un trattamento che parte dalle cellule del paziente, che vengono coltivate in laboratorio per poi essere utilizzate per riparare il danno. Essendo pochi i pazienti affetti da deficit di cellule staminali limbari, la malattia è considerata rara e la terapia è stata riconosciuta come farmaco orfano nel 2008.
Oltre all’incredibile lavoro sulle cellule staminali limbari dell’occhio, ha portato avanti altre ricerche in questi anni?
Dopo la certificazione per Holoclar c’è stato il trapianto di Hassan, bambino affetto da epidermolisi bollosa che abbiamo trattato con successo con la terapia genica sulle cellule epiteliali. Questo evento ci ha coinvolti tutti, se ne è parlato molto e in tutto il mondo. Inoltre, sto conducendo altri studi: tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo effettueremo il trattamento di due casi non ripetitivi ciechi bilaterali totali, quindi senza aree donatrici, con una tecnica innovativa per vedere se riusciamo a risolvere o migliorare la loro condizione. Nello stesso periodo partirà anche uno studio clinico di Fase I su bambini che soffrono di ipospadia posteriore, una malformazione rara dell’apparato urogenitale. L’idea è quella di trattare una necessità terapeutica per la quale la medicina rigenerativa potrebbe dare un contributo notevole, dato che questa patologia ha una percentuale di recidive, complicanze e reinterventi molto alta con le tecniche attualmente disponibili. Essendo un trial di Fase I andremo ad intervenire sui casi più difficili che hanno dimostrato di non rispondere al trattamento standard. La procedura sperimentale è chirurgicamente uguale a quella standard che farebbe l’urologo, con la differenza che viene trapiantato un epitelio coltivato in laboratorio partendo dalle cellule staminali dell’epitelio del paziente direttamente sul tessuto ricevente. Senza tutti i rischi di contaminazione e problemi di necrosi che ci sono con gli innesti di tessuto che usano normalmente (cioè tessuto prelevato a tutto spessore da altre parti del corpo e usato per ricostruire l’uretra).
Queste sono le ricerche che hanno già iniziato il loro primo percorso. Ne abbiamo altre “in cantiere”, che però sono proprio agli albori, in fase iniziale di ricerca: una per la ricostruzione delle vie aeree per una patologia respiratoria grave e l’altra per la ricostruzione dello stroma corneale, quindi qualcosa che potrebbe sostituire completamente il trapianto di cornea da donatore. Ci stiamo lavorando, ma ancora non sappiamo se il lavoro potrà portare i risultati sperati.
Non dimentichiamo la fondazione di Holostem, azienda biotech dedicata allo sviluppo di terapie avanzate nata nel 2008 come spin-off universitario. Holostem è stata fondamentale per il nostro percorso. La burocrazia richiesta alle università non può avere la flessibilità necessaria, con questo non voglio dire che l’università sia sbagliata, ma è semplicemente pensata per uno scopo diverso. Inoltre, la normativa europea è stata pensata per lo sviluppo di piccole e medie imprese e richiede la presenza di figure professionali che non esistono all’interno dell’università. L’azienda è quindi indispensabile per l’organizzazione del personale, che può essere selezionato in base alle attitudini e alle motivazioni, e la gestione del lavoro in maniera che sia rispondente alle normative europee. In Holostem ci sono giovani ricercatori e ricercatrici che credono in quello che fanno e sono consapevoli di essere l’ultima speranza per il paziente. Per me è imprescindibile: nessuno ci obbliga a fare un lavoro che non ci piace, bisogna crederci davvero.