Luigi Naldini

Prof. Luigi Naldini (SR-Tiget di Milano): “Abbiamo sviluppato un metodo meno invasivo per fare spazio alle cellule modificate con la terapia genica da infondere nei pazienti” 

Al sentir menzionare la terapia genica o i protocolli di utilizzo delle cellule staminali la mente corre verso la possibilità di correggere alcuni deleteri errori del codice genetico all’origine di patologie tra cui le immunodeficienze primarie, le malattie da accumulo lisosomiale o le emoglobinopatie. Tuttavia, per fornire una cura non è sufficiente modificare le cellule: occorre trovare il modo più adatto per restituirle al paziente e, come un buon innesto su una pianta, attendere che facciano il loro dovere e diano i frutti. È su questa delicata fase del processo che si sono soffermati i ricercatori guidati da Luigi Naldini, professore dell’Università Vita-Salute San Raffaele e direttore dell’Istituto Telethon San Raffaele per la Terapia Genica (SR-Tiget) di Milano, pubblicando un interessante studio prestigiosa rivista Cell.

MOBILIZZAZIONE: UNA FASE IMPORTANTE QUANTO L’INGEGNERIZZAZIONE

Il team italiano ha descritto un’efficiente strategia di “mobilizzazione” delle cellule staminali ematopoietiche che nei modelli murini di malattia ha consentito un miglior attecchimento delle cellule, evitando i problemi di tossicità spesso associati alla terapia di “condizionamento”. Il più importante risvolto di questa ricerca è, dunque, l’abbattimento del principale ostacolo all’applicazione del trapianto di cellule staminali nei programmi di terapia genica. “Prima di modificare le cellule staminali del sangue con la terapia genica occorre prelevarle dal midollo osseo del paziente dove esse si trovano”, spiega il prof. Naldini. “Questa fase si realizza con una procedura cosiddetta di mobilizzazione che, tramite l’uso di molecole e farmaci capaci di promuovere una parziale digestione della matrice midollare, prevede di far uscire le cellule dal midollo in modo tale che esse si trovino per qualche tempo a circolare nel sangue da dove possono essere prelevate”.

I farmaci impiegati per questa operazione sono ben tollerati e non producono effetti collaterali di particolare rilevanza, contrariamente a quelli usati per la successiva fase detta di condizionamento. “Purtroppo, dopo aver ingegnerizzato le cellule e aver preparato il prodotto terapeutico da reinfondere, le nicchie del midollo precedentemente liberate si trovano ad essere occupate da altre cellule che vi sono tornate dopo la mobilizzazione o le hanno riempite di nuovo”, prosegue Naldini. “Pertanto, attualmente si somministrano farmaci di condizionamento, decisamente più aggressivi di quelli usati per la mobilizzazione, che distruggono le cellule presenti nelle nicchie del midollo permettendo a quelle modificate di ripopolarle e, di conseguenza, rigenerare il sistema”.

I protocolli di condizionamento implicano il ricorso alla radioterapia o a farmaci chemioterapici che causano effetti avversi di varia natura sia a breve che a lungo termine, provocando una pesante soppressione del sistema immunitario che espone il paziente al rischio di emorragie e di gravi infezioni. Inoltre, questi trattamenti possono danneggiare anche il midollo osseo, a volte influenzando l’attecchimento delle nuove cellule modificate. Ciononostante, senza questo passaggio il processo di attecchimento non potrebbe realizzarsi perché la competizione tra le cellule modificate e quelle già presenti nel midollo rischierebbe di far prevalere queste ultime limitando l’efficacia della tecnica. “Da tempo siamo alla ricerca di un metodo meno invasivo per fare spazio alle cellule ingegnerizzate con i vettori lentivirali o con protocolli di editing del genoma”, aggiunge Naldini. “Nella nostra ricerca abbiamo osservato che esiste un breve momento in cui le nicchie nel midollo sono svuotate e abbiamo pensato di sfruttare quel momento per far sì che esse possano essere occupate dalle cellule da noi modificate”. 

QUESTIONE DI COMPETIZIONE TRA CELLULE

La possibilità di rinunciare alla fase di condizionamento è stata presa in considerazione anche da altri gruppi di ricerca che hanno pensato di espandere in vitro le cellule prima dell’infusione: tale soluzione purtroppo non ha finora prodotto risultati facilmente trasferibili in clinica. Altri ancora stanno testando l’impiego di anticorpi monoclonali - in certi casi anche abbinati a specifiche immunotossine - diretti contro antigeni specificamente espressi sulla superficie delle cellule staminali o dei globuli bianchi.

“Il nostro approccio è meno invasivo perché non facciamo ricorso a immunotossine bensì sfruttiamo il processo di competizione tra le cellule corrette e quelle residenti nelle nicchie che ancora portano la mutazione”, aggiunge il professore milanese, descrivendo la ricerca condotta su un modello animale di immunodeficienza primaria. “Le cellule corrette competono con le altre con un’efficenza maggiore di quella che pensavamo dal momento che le cellule mobilizzate sono meno capaci di restare nella nicchia”. Questo accade poiché il trattamento usato per smuoverle interviene sull’ambiente cellulare del midollo osseo distruggendo le proteine che fungono da “ancora” e tengono agganciate le cellule alla matrice. Tuttavia, dopo il prelievo e la modifica in coltura, le cellule ricostituiscono le proteine necessarie per ancorarsi alle nicchie: ciò spiega il vantaggio delle cellule corrette in vitro e reinfuse su quelle mobilizzate. “La capacità delle cellule modificate di tornare ad occupare la nicchia nel midollo osseo è elevata”, precisa Naldini. “Nei modelli sperimentali che abbiamo elaborato fino al 30% delle nicchie possono essere ripopolate dalle cellule modificate senza il bisogno di trattamenti di condizionamento”. 

SFRUTTARE IL VANTAGGIO CON L’mRNA

Una volta individuato il vantaggio occorre metterlo a frutto per ottenere il miglior risultato possibile. “Ci siamo chiesti come fosse possibile rendere ancora più competitive queste cellule corrette nella fase di occupazione delle nicchie e abbiamo trovato una risposta nella tecnologia dell’mRNA, resa celebre dalla produzione dei vaccini contro il COVID-19” prosegue Naldini. “Introducendo nelle cellule corrette un filamento di mRNA che dia l’istruzione di esprimere per un periodo di tempo limitato le proteine di ancoraggio, precedentemente rimosse con la mobilizzazione, esse diventeranno ancora più competitive ed efficaci nel tornare al loro posto”. Così il gruppo di ricerca milanese ha dimostrato l’efficienza di questo protocollo terapeutico in un modello murino di immunodeficienza primaria utilizzando le cellule di donatori sani e di pazienti e ottenendo una risposta immunitaria senza il bisogno di un trattamento di condizionamento.

“Possiamo sfruttare la naturale capacità di recupero delle cellule corrette o potenziarle per far in modo che esprimano le molecole che conferiscono loro un ulteriore vantaggio”, aggiunge Naldini. “In questo modo potremmo usare farmaci ben tollerati e arrivare a fare solo due processi di mobilizzazione, uno per raccogliere e correggere le cellule e un secondo prima di infonderle. Potremmo addirittura pensare di arrivare a fare tutto in un unico ciclo ma è necessario calcolare bene i tempi.” Anche quelli di ingegnerizzazione delle cellule. 

MAI CONCEDERSI IL PECCATO DI PERDERE DI VISTA IL TEMPO

I precedenti tentativi di mobilizzazione dopo infusione erano stati condotti senza successo anche per il fatto che non è stata sfruttata la giusta finestra temporale”, spiega Naldini. “Si tratta di un momento temporale limitato di cui bisogna saper approfittare altrimenti la competizione tra cellule diventa spietata”. Pertanto, la procedura di trasferimento genico con vettori lentivirali o di editing genetico con CRISPR deve esser realizzata rapidamente per restituire le cellule al paziente.

I risultati ottenuti dai ricercatori del SR-Tiget di Milano lasciano pensare che questo possa essere possibile mettendo in rilievo l’ampia portata di questo intervento. “Oggi una tale procedura potrebbe trovare impiego nello scenario di una terapia genica che utilizzi le cellule autologhe, cioè quelle prelevate dallo stesso paziente, mentre non sarebbe immediatamente applicabile nel contesto del trapianto di donatore allogenico adottato per certe patologie neoplastiche”, conclude Naldini. “Non è escluso che in futuro la tecnologia dell’mRNA non ci aiuterà a tagliare anche questo traguardo ma, in tempi più imminenti, la strategia da noi sviluppata potrebbe favorire l’applicazione della terapia genica non solo in pazienti affetti da patologie genetiche gravi ma anche in quelli con forme più lievi che trarrebbero beneficio dall’infusione delle cellule senza dover affrontare la chemioterapia”. Il cammino di questa straordinaria ricerca è dunque ancora nelle fasi iniziali ma le sue potenzialità potrebbero presto rivoluzionare l’universo delle terapie avanzate.

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