Cellule cancerose

Uno studio olandese ha messo a punto un modello tumorale su cui studiare la risposta clinica dei pazienti ai trattamenti con gli inibitori dei checkpoint immunitari 

Un’idea vincente non sempre corrisponde al traguardo. Più spesso, specie in ambito biomedico, è un punto di partenza. Lo testimoniano le storie di Jim Allison e di Tasuku Honjo, insigniti del premio Nobel per la Medicina nel 2018 e considerati i moderni padri dell’immunoterapia. Essi saranno per sempre celebrati per aver scoperto i “freni” del sistema immunitario e l’incredibile vicenda che ha portato le loro scoperte a trasformarsi in farmaci meriterebbe un libro intero. Tuttavia, non sempre e non tutti i pazienti rispondono a tali farmaci e l’interrogativo a cui molti ricercatori oggi tentano di dare risposta è perché ciò si verifichi. Tra i molti c’è anche Daniela Thommen del Netherlands Cancer Institute ad Amsterdam.

In un articolo scientifico pubblicato a luglio sulla prestigiosa rivista Nature Medicine, il gruppo di ricerca guidato da Thommen ha descritto la procedura grazie a cui sono riusciti a creare degli “avatar” di diverse tipologie di tumori che hanno usato per prevedere la risposta clinica ai protocolli di immunoterapia. Sembra una pagina di fantascienza ma è un’incoraggiante realtà che lascia presagire un importante progresso nella selezione dei pazienti che da queste terapie potranno trarre benefici.

Innanzitutto, val la pena ricordare che i farmaci cosiddetti “inibitori dei checkpoint immunitari” bloccano recettori come CTLA-4 e PD-1, ovvero proteine presenti sulla superficie di diverse cellule che fanno parte del sistema immunitario e che ne regolano l’attività agendo come “acceleratori” o “freni”. Negli anni i ricercatori hanno osservato che inibendo PD-1 - il recettore scoperto da Tasuku Honjo nel 1992 - si possono “restituire energie” ai globuli bianchi che hanno già infiltrato la massa tumorale ma che sono “tenuti a freno”. Questo ha condotto allo sviluppo e alla messa in commercio di anticorpi contro questo recettore, oggi ne esistono per almeno 16 tipologie di tumori. Ma la risposta clinica dei pazienti non è sempre univoca, in parte perché non si conoscono a fondo le conseguenze di tale inibizione sul piano immunologico. Che l’idea sia corretta e che l’inibizione dei checkpoint immunitari “riattivi” il sistema immunitario contro il tumore non è in dubbio, come pure il fatto che sia necessario far più chiarezza sui meccanismi con cui ciò avviene concretamente.

Il team olandese è riuscito a fornire una prima risposta a questo interrogativo, ricreando un modello  - o meglio un “avatar” - tumorale su cui studiare la risposta alle terapie che bloccano l’azione di PD-1. Lo ha fatto generando un sistema ex vivo nel quale il microambiente tumorale viene ad esser mantenuto, conservandosi perfettamente così come si trova nel corpo paziente ma consentendo la “perturbazione” prodotta dalla somministrazione dei farmaci immunoterapici. Ciò garantisce da un lato di ottenere preziose informazioni sul tumore e, dall’altro, di indagare a fondo la dinamica della risposta al trattamento. 

Altri, prima di Daniela Thommen, avevano tentato questo filone di ricerca - alcuni servendosi anche degli organoidi - ma nessuna correlazione tra le alterazioni immunologiche e la risposta clinica al blocco del checkpoint immunitario era emersa in maniera significativa. Servendosi di un avanzato approccio combinatoriale, i ricercatori sono riusciti a superare l’ostacolo, mettendo a punto una piattaforma specifica che permette di rilevare i dati dell’impatto dei diversi trattamenti sui pazienti. La “mappa” da essi ottenuta ripropone con fedeltà i marcatori immunitari variati negli avatar dei pazienti che rispondono o non rispondono al blocco dei checkpoint immunitari. Scopo dello studio è stato capire quale fosse il trattamento personalizzato più adeguato (e quindi più efficace) al malato.

Il team guidato da Thommen ha così potuto vedere come una rapida risposta sul piano immunologico correli direttamente con quella clinica: infatti, l’inibizione di PD-1 riattiva le cellule T presenti all’interno delle lesioni tumorale umane. Non è ancora chiaro se tale riattivazione possa essere duratura o abbia una scadenza temporale naturale ma i ricercatori credono fortemente nelle potenzialità di un modello di indagine utile a fornire sostanziali informazioni per rendere l’immunoterapia sempre più “tagliata” sulle caratteristiche del paziente. Lo studio, infatti, individua dei predittori di risposta o resistenza all’immunoterapia: i campioni di tumore usati in questa ricerca sono stati ottenuti da pazienti affetti da melanoma, cancro del polmone non a piccole cellule (NSCLC), al seno, all’ovaio e carcinoma a cellule renali. Tra questi i ricercatori hanno identificato tre diversi sottogruppi di tumori che non rispondono, individuando delle peculiari strutture da usare come marcatori in grado di predire la risposta al trattamento.

Tutto ciò mostra chiaramente il significato di questa ricerca che ha avuto il pregio di elaborare un metodo con cui affinare ancora di più l’utilizzo di una forma di terapia altamente rivoluzionaria, nata dalla comprensione del sistema immunitario, ma alla perenne ricerca di parametri di valutazione oggettivi tramite cui comprenderne l’efficacia in pazienti tra loro molto diversi.

Con il contributo incondizionato di

Website by Digitest.net



Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento Maggiori informazioni