Il titolo di questo articolo potrebbe evocare la celebre scena del film Jurassic Park in cui si vedono i protagonisti intorno all’uovo di dinosauro in procinto di schiudersi: è un momento di grande attesa in cui tutti osservano il perpetuarsi della vita, seppur tra le quattro pareti di un laboratorio. A più di qualcuno una cellula “sintetica”, che lentamente inizi a muoversi, potrebbe indurre la stessa idea. Forse pure con un pizzico di apprensione. Lungi da ciò, una cellula generata in laboratorio, come quella dei ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine, non è una mostruosità bensì un’innovazione tecnologica di altissimo livello che potrebbe permettere di rivelare particolari biologici nuovi di un processo come la divisione cellulare che, quando perde il controllo, conduce al cancro. Lo studio statunitense è stato recentemente pubblicato su Science Advances.
Tra i temi più accattivanti dell’immunologia non c’è solo il modo in cui i linfociti T riconoscono i virus o i batteri che minacciano l’organismo ma come essi riconoscano le cellule infettate dai patogeni. O che subiscono una trasformazione neoplastica. Tale affascinante meccanismo è all’origine della moderna immunoterapia secondo cui il sistema immunitario può essere messo in condizioni di prevalere anche su malattie gravi, quali il cancro. Diversi gruppi di ricerca nel mondo si stanno adoperando per capire come restituire ai linfociti T il vantaggio nella lotta alle cellule tumorali: dagli Stati Uniti arriva un’intrigante strategia, oggetto di una pubblicazione sulla prestigiosa rivista The Lancet.
Un articolo recentemente pubblicato ha messo sotto i riflettori un problema noto a chi fa ricerca clinica nel settore della terapia genica: la risposta immunitaria ai virus usati come vettori per veicolare il “gene terapeutico” al suo bersaglio. Il numero di approvazioni e di sperimentazioni di terapie geniche sono aumentate nell'ultimo decennio, ma l'impossibilità di somministrare più di una dose limita le applicazioni terapeutiche. Gli effetti di alcuni trattamenti, infatti, si attenuano nel tempo, mentre altri potrebbero aver bisogno di essere somministrate in più dosi per fornire un beneficio significativo. Questo è noto oggi grazie agli studi fatti in questi anni, ricerche che hanno anche permesso di pensare a delle possibili soluzioni al problema.
Michele è un ragazzo come tanti: quasi 18 anni, la famiglia, gli amici, la scuola superiore e ora tutta l’estate davanti. Ma ha una storia che pochi altri al mondo possono raccontare: una storia di scienza, medicina e innovazione, che ha visto come protagonista un incontro fortuito tra le sue cellule staminali ematopoietiche e CRISPR. Michele è, infatti, uno dei giovanissimi pazienti con beta-talassemia che ha partecipato allo studio clinico internazionale CLIMB-111, ideato per valutare la terapia basata su Crispr-Cas9 e che in Italia ha coinvolto l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. La terapia - denominata exagamglogene autotemcel o con il nome commerciale Casgevy - è da pochi mesi autorizzata in Europa e Michele è uno di quei ragazzi che, testandola sulla propria pelle, hanno permesso che si arrivasse a questo successo. Maria, sua mamma, ha raccontato la storia del loro percorso a Osservatorio Terapie Avanzate.
a cura di Anna Meldolesi
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