Uno dei peggiori errori che si possano fare in campo scientifico è quello di ragionare per compartimenti stagni. Seguire linee di pensiero trasversali e adottare approcci multidisciplinari è il modo migliore per ottenere buoni risultati dalle proprie ricerche e poter avanzare nella battaglia contro gravi patologie. E questo è l’approccio seguito nello studio pubblicato, lo scorso febbraio sulla rivista Science Advances, da un gruppo di studiosi dell’Università della Pennsylvania e del Children’s National Hospital di Washington, i quali hanno saputo combinare i benefici della terapia genica con quelli dell’editing genomico per trattare una rara patologia del metabolismo.
Il settore è in crescita esponenziale, molte terapie avanzate sono in fase di approvazione e oltre mille sperimentazioni cliniche sono in corso nel mondo intero. Secondo alcune stime entro il 2030 saranno lanciate fino a 60 nuove terapie cellulari e geniche. Tuttavia, sebbene il progresso nel campo delle biotecnologie sia un fattore positivo, la complessità nella produzione e nella gestione delle terapie è indiscutibile e bisognerà trovare al più presto una soluzione praticabile. Le sfide ci sono a ogni livello: dallo sviluppo iniziale ai test di sicurezza ed efficacia, dalla produzione dei vettori all’aspetto regolatorio. Gli impianti di produzione, più simili a grandi laboratori che a stabilimenti industriali, dovranno aumentare in numero e produttività per rispondere alle necessità attuali.
Nel campo della biologia - come in tutti gli ambiti di studio d’altra parte - per ottenere risultati utili al miglioramento delle conoscenze è necessario osare e provare a realizzare cose mai fatte in precedenza. Ovviamente, sempre le buone pratiche della ricerca e dell’etica. Se quelli della prof.ssa Marianna Paulis, e del suo gruppo di ricerca presso l’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-Irgb), saranno risultati straordinari lo diranno solo le future pubblicazioni, ma di certo la loro tecnica di trapianto di cromosoma è qualcosa di mai tentato da altri prima.
Certe volte anche le cose negative possono tornare utili, o come si suol dire “non tutto il mal vien per nuocere”. Cosi è per il caso del veleno dello scorpione: utilizzato da un gruppo di scienziati, dell’Istituto per i Tumori “City of Hope” in California, per sviluppare una nuova versione di terapia CAR-T per il glioblastoma. La clorotossina (CLTX) estratta dal veleno dello scorpione, infatti, già in precedenza aveva dimostrato la capacità di riconoscere e legarsi alle cellule di questo grave tumore cerebrale. Motivo per cui il team di ricerca ha deciso di utilizzarla per progettare un nuovo recettore dell'antigene chimerico (CAR) in grado di superare le limitazioni delle attuali terapie CAR-T per il glioblastoma, che finora sono risultate non efficaci. Lo studio preclinico è stato pubblicato il 4 marzo su Science Translational Medicine e sulla base di questi risultati è in partenza un trial clinico di Fase I.
a cura di Anna Meldolesi
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